
È passato più di un mese dal tragico 8 agosto, quando il giovane skipper Giovanni Marchionni, 21 anni, originario di Bacoli, è stato trovato morto nella cabina di prua di uno yacht di 17 metri ormeggiato nel marina di Portisco, in Sardegna. Nonostante i molteplici accertamenti disposti dalla Procura di Tempio Pausania, le cause della morte restano avvolte nel mistero.
L’autopsia ha stabilito che Giovanni è morto per arresto cardiocircolatorio, ma non è emerso alcun elemento certo che chiarisca cosa abbia provocato quell’arresto. Non sono state riscontrate droghe o sostanze stupefacenti, né segni di ictus, emorragie o traumi.
Tra le ipotesi investigative figurano esalazioni tossiche provenienti dalle batterie di servizio o da altri impianti della barca, come motore, o impianto di condizionamento , che potrebbero aver avuto un ruolo determinante.
Durante un sopralluogo, con motori e condizionamento attivi, sono state rilevate inizialmente concentrazioni di monossido di carbonio superiori ai limiti, soprattutto vicino alla cabina dove è stato trovato il corpo. Tuttavia, analisi successive con strumenti più specifici non hanno confermato quei valori.
Una delle batterie del sistema di alimentazione servizi è apparsa danneggiata e, una volta aperto il tappo, ha emesso odore di acido solfidrico. Quando la batteria è stata richiusa, però, non si è riscontrata presenza del gas nell’aria circostante.
Un mese dopo i fatti sono stati prelevati nuovi campioni d’aria all’interno della barca, inviati in laboratorio per analisi più accurate. Parallelamente, accertamenti dell’Inail confermerebbero che Giovanni lavorasse effettivamente a bordo, contrariamente a quanto dichiarato dai proprietari dell’imbarcazione, che lo avevano descritto come un semplice ospite.
Le incongruenze che preoccupano
I rilevamenti iniziali sul monossido di carbonio, poi smentiti da controlli successivi, lasciano dubbi sull’affidabilità dei metodi adottati e sulla capacità dei periti di ottenere risultati certi.
Analogamente, l’acido solfidrico è stato individuato solo all’interno di una batteria danneggiata, non negli ambienti abitabili, il che rende difficile stabilire se la sostanza abbia raggiunto la cabina di prua.
L’autopsia, pur avendo escluso molte cause comuni, non ha chiarito la causa scatenante dell’arresto cardiaco. Gli esami tossicologici e istologici, che potrebbero fornire risposte decisive, sono ancora in corso.
Interrogativi da porre
Alla luce di quanto emerso, restano aperte alcune domande cruciali:
- I periti incaricati hanno specifiche competenze su gas tossici, impianti elettrici di bordo e batterie marine?
- Le verifiche iniziali e quelle successive sono state svolte con metodi comparabili, in modo da garantire risultati confrontabili?
- Esistono procedure indipendenti per verificare le analisi di Procura, parti civili e proprietà dello yacht?
- È stato rispettato ogni passaggio tecnico nella raccolta delle prove, nel campionamento dell’aria e nelle misurazioni dei gas?
Perché, a un mese dal fatto, non si può restare nel dubbio
Il caso Marchionni non è solo una questione privata: riguarda l’affidabilità delle indagini, la trasparenza e il diritto alla verità. Dopo così tanto tempo è insolito che non vi sia ancora una diagnosi precisa su un’eventuale intossicazione o su un guasto che possa aver provocato l’arresto cardiaco.
Giovanni Marchionni meritava – e merita – che la verità venga ricostruita in modo chiaro. Non basta stabilire cosa non è successo; è necessario capire cosa ha realmente provocato la sua morte.
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