lunedì 27 marzo 2023
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Regate oceaniche: l'allarme ecologico del navigatore Stan Thuret

Il navigatore francese Stan Thuret denuncia l'incompatibilità ecologica delle regate oceaniche, aprendo la riflessione su un modello di costruzione delle barche poco sostenibile

L'allarme ecologico del navigatore Stan Thuret
L'allarme ecologico del navigatore Stan Thuret

Le regate oceaniche non sono più sostenibili per l’ambiente. È questo il grido d’allarme del francese Stan Thuret, navigatore oceanico con un buon curriculum tra Class 40, Figaro 3 e Imoca 60.

Un argomento quanto mai spinoso perché riguarda un’industria che in Francia produce un indotto importante, e in generale coinvolge tutta l’industria velica, anche quella del diporto.

Thuret, in un lungo post Facebook qualche settimana fa, ha annunciato il suo addio alle regate oceaniche, e il motivo è legato alla scarsa compatibilità ambientale della vela offshore e delle classi che di essa sono protagoniste. Proprio nei giorni in cui continuano a essere presentati nuovi Imoca 60, altri Class 40 sono in arrivo, l’argomento sollevato da Thuret può essere molto attuale e spunto per qualche riflessione.

“Fermo le corse offshore per motivi ecologici” esordisce nel suo post Thuret. “L'emergenza climatica non è compatibile con il modello che impongono le competizioni offshore…oggi non mi sento più di competere senza porre un limite alle prestazioni. Perché questo non ha senso. Perché il prezzo da pagare in termini ambientali è alto. E non voglio più essere diviso tra il dire che dobbiamo cambiare qualcosa e il non cambiare me stesso”.

Barche come gli Imoca 60 o i Class 40, protagonisti delle più grandi corse oceaniche attuali, sono di fatto dei prototipi. Negli ultimi anni le loro prestazioni sono cresciute a livello esponenziale grazie ai nuovi materiali e alle nuove tecnologie come i foils nel caso degli Imoca.

La ricerca continua delle prestazioni aumenta a dismisura i costi di produzione, e non si sposa con tecniche di costruzione che possano prendere in considerazione materiali eco sostenibili.

La vetroresina classica al momento è insostituibile per i Class 40, così come l’utilizzo del carbonio e di resine dalle elevate capacità meccaniche per gli Imoca 60: per la costruzione di queste barche vengono prodotte svariate tonnellate di CO2.

La loro vita è relativamente breve, restano competitive per 4-5 anni al massimo e poi vengono superate da progetti più aggiornati. Nel giro di 10-15 anni o poco più rischiano di essere dismesse e non c’è alcun secondo possibile utilizzo per la maggior parte dei materiali impiegati nella loro costruzione, che non sono riciclabili.

Nel mondo in cui viviamo, attanagliato dai problemi ambientali, ha senso che uno sport come la vela, che per definizione dovrebbe essere il più possibile “green”, segua un modello di sviluppo simile per le regate offshore?

Il fascino delle prove oceaniche, anche in termini di audience che creano nella comunità velica internazionale, è indubbio. La componente tecnologica è certamente parte di questo fascino, ma negli ultimi anni sembra essere stata elevata a livelli estremi.

Fare barche meno veloci, esplorando le nuove tecniche costruttive come le resine termoplastiche e le fibre naturali che iniziano a essere impiegate anche nel mondo della nautica, può essere una soluzione?

Non cambierebbe i problemi del mondo, ma servirebbe a proporre un modello più “sano”, sostenibile, e forse anche meno costoso e quindi accessibile a un pubblico più vasto di velisti.

Il problema in realtà non riguarda solo le regate oceaniche, ma la vela in generale.

I costi ambientali citati sopra a proposito di Imoca e Class 40 sono riscontrabili anche nella produzione di barche da diporto, che in larghissima maggioranza utilizzano materiali analoghi a quelli citati sopra.

Il fine vita delle barche è sempre stato un problema. Una barca da diporto ha una vita molto più lunga rispetto a una da regata, ma la contraddizione di fondo resta.

© Riproduzione riservata

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